Vestivamo alla paninara: Simon Le Bon e il ritorno dei Wild Boys
Dopo 40 anni riecco sotto i riflettori i Duran Duran, testimonial di uno stile e di una generazione
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Non si era ancora del tutto sciolto l’incredibile manto di neve che aveva sepolto Milano un mese prima, eppure quel 9 febbraio del 1985 il clima era incandescente. Una frotta di ragazzine si agitava da ore davanti alla tv come quelle figlie che oggi si truccano con 10 strati coreani davanti al telefonino acceso su Tik tok.
Quando apparve l’amato ciuffo migliaia di schermi bombati del Brionvega di turno si impastarono all’unisono di baci al gusto lampone del lucidalabbra. Ecco chi erano i Duran Duran. Quelli che 40 anni dopo tornano nella città dei fiori e nel cuore delle ragazze di allora, con Katia Follesa che riesce a baciare il loro leader anche se non, ancora una volta, a sposarlo.
Sul palco ha reso bene l’idea di quell’emozione, quell’amore nato tanto tempo fa nei confronti del gruppo che si disputava con gli Spandau Ballet il podio dei più adorati. Un amore di neve, direbbe Baglioni, quell’inverno. Con gli adolescenti che vestivano alla paninara.
Ragazzi e ragazze per cui l’etichetta era tutto: moda, appartenenza, esistenza. E che brand. Alcuni ormai seppelliti sotto gli strati del tempo e del mercato, altri ancora più che smaglianti nelle vetrine di via Montenapoleone. La cintura doveva essere di “El Charro” acquistata, appunto, nel negozio in fondo al piccolo corridoio nella celebre via.
Gli occhiali erano i Wayfarer. Le borse solo e soltanto Naj Oleari, che dipingeva palme piccole e verdi anche sulle camicette delle “Preppy” e sulle toppe dei jeans, rigorosamente con il risvolto per mostrare le calze scozzesi. Il “bronzo” fresco di lampada solare, i piumini Moncler ma anche lo Schott o il più compassato Henri Lloyd. E le felpe della “Best”, i jeans di Armani. E poi le scarpe, vera ossessione e feticcio di tutta una generazione. C’erano gli stivali, a punta e anche squadrati. E soprattutto c’era il carrarmato con l’alberello inciso.
Andavano incontro al mondo così, con l’“attrezzatura”, i wild boys e wild girls che si stringevano forte nei lenti alle note di “If the russians love their children too”. Chernobyl non c’era ancora stato. L’emergenza era l’Africa di Bob Geldof che a Natale aveva lanciato “Do they know it’s christmas” e quel geniaccio di Harry Belafonte aveva da pochi giorni replicato registrando “We are the world”.
L’aria sapeva già di quella primavera spensierata che dava il nome a un negozio di San Babila. Con Burghy e Fiorucci era quanto bastava per essere felici. Simon Le Bon in Italia era l’evento clou di quell’inverno di scuola e discoteca il pomeriggio. E c’era pure in serbo un piccolo scandalo dell’ultima ora.
Il cantante dei Duran Duran si era infatti infortunato sugli scogli del lungomare di Sanremo dove pare si fosse avventurato in buona compagnia. Quella sera sul palco dell’Ariston aveva cantato “Wild Boys” con un piede ingessato. Ma era figo lo stesso direbbero quelle ragazze.
Così figo che anche oggi che canta la stessa canzone e racconta lo stesso episodio tralasciando i dettagli lo si sta a guardare ed ascoltare, una vita dopo, pur senza ciuffo, ugualmente wild.
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