Non è solo l’ultimo capitolo della trilogia cinematografica, ma la chiusura di un’epopea iniziata quindici anni fa con la serie di Julian Fellowes. Una saga che ha attraversato il Novecento, ma che – dietro a balli in abito da sera, cucine brulicanti di domestici e rituali aristocratici – ci ha parlato anche del presente. E che da oggi è nella sale italiane con Downton Abbey – Il Gran Finale (Universal Pictures) con la regia di Simon Curtis.
Sin dai primi istanti, con l’immagine della dimora immersa nella campagna inglese e il ritratto di Lady Violet ad accogliere lo spettatore, il film vibra di memoria e commozione. Maggie Smith, scomparsa lo scorso anno, rimane presenza viva e indimenticabile: il suo personaggio continua a vegliare sulla famiglia Crawley, come un legame inestinguibile tra passato e futuro.
Siamo negli Anni 30, dopo il crollo della Borsa del ’29. La crisi economica arriva anche a Downton: Cora (Elizabeth McGovern) ha affidato la sua eredità al fratello Harold (Paul Giamatti), con esiti disastrosi. Per tentare di rimediare entra in scena Gus Sambrook (Alessandro Nivola), affascinante uomo d’affari. Intanto Lady Mary (Michelle Dockery), segnata dal divorzio, sfida le convenzioni sociali che la vorrebbero emarginata.
“Le cose cambiano e noi dobbiamo cambiare con loro”, dice Lord Grantham (Hugh Bonneville), che più di tutti fatica ad accettare le trasformazioni del mondo. È una battuta che vale anche per lo spettatore: dire addio a Downton, dopo 15 anni, è difficile.
Nel corso della sua storia, Downton Abbey ha affrontato sempre con discrezione temi universali: la crisi, l’emarginazione, l’identità, il desiderio di emancipazione. Così accade anche qui. C’è Lady Mary che rifiuta di nascondere la propria condizione di divorziata. C’è Isobel Grey (Penelope Wilton) che, alla guida della fiera annuale, rompe gli schemi inserendo tra gli organizzatori Carson e Daisy. C’è Thomas Barrow (Robert James-Collier), che trova la felicità accanto a Guy Dexter (Dominic West), in un’Inghilterra dove l’omosessualità resta invisibile. Il messaggio è sempre lo stesso: nelle stanze solenni della dimora, come nel mondo fuori, si può trovare un punto d’incontro basato sul rispetto umano.
Il cuore visivo del film resta Highclere Castle (il “vero” Downton che si trova nell’Hampshire) con i suoi contrasti: i piani inferiori “in bianco e nero”, affollati e operosi, e i saloni nobiliari “in technicolor”, luminosi e solenni. Accanto alla tenuta, il film ci porta in nuovi luoghi simbolici, come il Richmond Theatre di Londra, il Royal Ascot ricostruito a Ripon e la Fiera della Contea allestita nello Yorkshire, tra dettagli autentici, come un Helter Skelter del 1906. Ogni ambientazione non è solo sfondo, ma parte integrante del racconto.
I costumi firmati da Anna Robbins trasformano la moda Anni 30 in racconto interiore: linee ispirate a Chanel, Vionnet e Lanvin, tessuti che fluiscono, abiti che svelano fragilità e forza dei personaggi. Lady Mary cambia palette cromatica – dai rossi accesi a tinte più tenui – a segnalare una nuova vulnerabilità. Edith assume colori più decisi, a sottolineare l’inversione dei destini con la sorella. Fino all’abito rosso fuoco del Ballo di Petersfield, vero colpo di teatro per un addio “col botto”.
Downton Abbey non è mai stata solo una serie o una trilogia di film. È stata una finestra su un mondo che non c’è più e che pure, tra le sue luci e ombre, ci ha aiutato a riflettere sul nostro. Questo Gran finale è commovente e perfetto, come lo definiscono i fan: un addio che non chiude del tutto, ma lascia spazio alla possibilità di un nuovo inizio. Forse un prequel, forse la storia di una nuova generazione. Intanto, resta la sensazione di aver salutato dei personaggi diventati quasi di famiglia. E la certezza che, come dice Lady Violet, “Perdonare, forse. Dimenticare, mai”. Le emozioni vissute in quindici anni tra serie tv e film saranno impossibili da dimenticare. Le lacrime che ci ha fatto versare… quelle sì, si perdonano.
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