Per noi oggi è normale: un palazzo in cemento bianco, grandi vetrate, tetto piano. Ne vediamo ovunque nelle nostre città. Ma allora no: era un’apparizione, un corpo estraneo, più simile a una fabbrica che a una scuola. Quella cosa aliena era l’edificio destinato a ospitare la scuola del Bauhaus – nata a Weimar nel 1919 – costruito tra il 1925 e il 1926 e destinato a cambiare la storia dell’architettura e il nostro sguardo sul mondo.
Il suo autore è Walter Gropius, primo direttore, che con un manifesto – com’era tipico delle avanguardie – accese la scintilla di una nuova epoca creativa. Ma intorno, la Germania era piegata dalla guerra: la Repubblica di Weimar arrancava tra inflazione e instabilità, la società viveva il trauma della sconfitta, e già si addensavano le ombre di un nazionalismo pronto a trasformarsi in dittatura. Eppure, in quel tempo fragile, nel cuore della Sassonia, il Bauhaus fu un atto di fiducia nel futuro.
Un laboratorio di idee che cercava bellezza e funzione, mentre il mondo intorno rischiava di crollare di nuovo. E infatti, dopo Hannes Meyer (il secondo direttore della scuola) - troppo socialista per l’epoca e per un Paese che stava scivolando a destra - la direzione passa a Ludwig Mies van der Rohe. Con lui la scuola cerca di resistere, ma l’aria si fa irrespirabile. Prima il trasferimento a Berlino, poi le pressioni, i controlli, i sospetti. Fino alla chiusura definitiva, nel 1933. Da lì a poco la Germania avrà la “brillante idea” di invadere la Polonia, trascinando il mondo in un nuovo incubo. La parabola del Bauhaus si spegne così, ma la sua luce non si estingue: i maestri e gli allievi portano altrove quella visione, seminando modernità da Tel Aviv a Chicago, da Mosca a Milano.
Oggi, quell'edificio così fondamentale compie cento anni, e la Germania lo celebra fino al 2026 con mostre e manifestazioni.
Eppure l’edificio resta. Non come un monumento muto, ma come un organismo che continua a parlare. Ogni forma è essenziale, ogni linea misura il tempo e lo spazio, come se la geometria potesse raccontare la vita. All’interno, l’eco dei passi si mescola ai fantasmi dei maestri: Gropius che discute proporzioni con Moholy-Nagy, Albers che misura il colore come fosse musica, Breuer che piega il tubo d’acciaio in forme impossibili. Non c’è pomposità: tutto è funzionale, tutto è luce, spazio, respiro. È un edificio che insegna anche quando è silenzioso. Fuori, le Case dei Maestri sembrano sospese tra la città e la campagna: angoli di vita quotidiana progettati da Gropius con la stessa precisione dei laboratori, dove l’arte e la pratica si mescolano senza soluzione di continuità. E oltre, il quartiere di Törten sempre di Gropius racconta un’altra rivoluzione: case per tutti, funzionali, moderne, come un’eco della scuola che le ha generate.
Oggi il Bauhaus non è solo un museo da visitare, ma anche un luogo da vivere. È infatti possibile pernottare nel Prellerhaus, il blocco dormitorio costruito nel 1926 per studenti e maestri. Le camere, ricostruite nello stile originale, sono essenziali: arredi in puro spirito Bauhaus, lavandino in stanza, bagni e docce in comune lungo i corridoi. Una soluzione spartana, ma capace di restituire l’atmosfera autentica della scuola, trasformando il soggiorno in un’immersione diretta nello spirito dell’avanguardia. E forse è proprio questo il senso del Bauhaus, cento anni dopo: non un ricordo imbalsamato, ma un pensiero che continua ad abitare gli spazi, capace di accogliere chiunque voglia entrarci, viverlo e portarlo con sé.
Il lascito del Bauhaus è ovunque: lo ritroviamo nell’architettura moderna che cerca chiarezza, luce e funzione, ma anche negli oggetti e negli arredi che ancora oggi sono considerati punti di riferimento assoluti. Non a caso, i nomi che risuonano con più forza sono quelli di Marcel Breuer e Ludwig Mies van der Rohe, protagonisti di una stagione che ha cambiato per sempre il nostro modo di abitare.
Tra i simboli più celebri c’è la sedia Wassily, (Knoll international) progettata da Breuer nel 1925 proprio per Kandinsky di cui porta il nome: struttura in tubolare d’acciaio, fasce di cuoio tese, un oggetto che sembra nato da un laboratorio di ingegneria, ma che in realtà è un manifesto di leggerezza, funzionalità e modernità.
Altrettanto iconica è la Barcelona Chair, che Mies van der Rohe (Knoll international) disegna nel 1929 per il padiglione tedesco dell’Esposizione Universale di Barcellona: un trono moderno, fatto di pelle e acciaio, destinato non a un re ma a una nuova idea di eleganza, pura e senza ornamenti. La lezione del Bauhaus però non si ferma al mondo delle sedute: abbraccia ogni aspetto della vita quotidiana.
Lo dimostra la lampada da tavolo di Marianne Brandt (Tecnolumen), con il suo equilibrio tra geometria e poesia, tra metallo e luce, pensata per illuminare con semplicità e rigore. E ancora i tappeti tessuti da Josef Albers (Christopher Farr), dove fili e colori diventano ritmo, trama, architettura orizzontale: non semplici complementi, ma superfici che trasformano gli spazi in partiture visive.
E poi ci sono i mobili destinati ad abitare la vita di tutti i giorni, come il set di tavolini Thonet B9, firmato ancora da Marcel Breuer: tubi d’acciaio piegati e ripiani in vetro grigio fumé che si incastrano l’uno nell’altro con naturalezza, pronti a scomparire e riapparire a seconda delle esigenze. Un’idea semplice e geniale che anticipa il design modulare e flessibile che ancora oggi cerchiamo nelle nostre case.
A chiudere il cerchio, il servizio da tè di Walter Gropius (Rosenthal): tazze, teiera e zuccheriera ridotte a puri volumi geometrici – cilindri, sfere, cerchi – che trasformano un gesto quotidiano in un piccolo rito di modernità. Anche qui nessun decoro superfluo, solo la forza della forma e della funzione, portata fino all’intimità della tavola.
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